Afropolitan è il tentativo di tradurre in musica i nuovi linguaggi che da circa un decennio caratterizzano il rinascimento africano. Un termine coniato nel 2005 dalla scrittrice ghanese Taiye Selasi, reso poi celebre dal filosofo camerunense Achille Mbembe nel saggio “Afropolitanism,” in cui sostiene la multiculturalità come via africana alla cittadinanza globale. Un termine che fa riferimento a quella classe media “mobile, sociable and attractive” capace in questi anni di ritagliarsi spazi di assoluto rilievo nel campo dell’economia e delle arti e che ben si presta a descrivere questa nuova identità nera apolide. “Giovani, urbani e culturalmente consapevoli” come ha sagacemente titolato la CNN in uno speciale dedicato proprio alla nuova imprenditoria Afropolitan. Un’esplicita presa di distanza dal “disastro pornografico” con cui a lungo abbiamo descritto le apocalissi del continente nero; ma anche un passo in avanti rispetto alla nozione romanticizzata di Eden africano, tutta natura selvaggia, tribù e tradizioni. Gli Afropolitan sono ibridi per definizione, studiano a Parigi, espongono a New York, ma conservano in maniera gelosa ed originale le radici africane, specie quelle esoteriche. Sono sperimentatori indomiti, ricercatori per vocazione; narratori ipertestuali in grado d’interpretare i linguaggi della contemporaneità in maniera unica e spiazzante. Benvenuti nell’Africa del secolo XXI, tra cosmopolitismo, magia nera e autostrade digitali.